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lunedì 28 agosto 2017

GINESTRE

"Cytisum" Ecco il nome non proprio famigliare che è stato scelto per raggruppare una cinquantina di specie vegetali di cui dodici presenti anche in Italia.
E ancora altri nomi poco noti affibbiati ad altri raggruppamenti affini come "Spartium" e "Calicotome".
Tutti i membri di questi gruppi sono certamente meglio conosciuti con l'appellativo di Ginestre.
I più noti fra loro sono  la Ginestra dei carbonai (Cytisum scoparius), la Ginestra di Spagna o ginestra odorosa (Spartium junceum) e la Ginestra spinosa (Calicotome spinosa).
Si tratta di arbusti perenni legnosi alla base. Tutti particolarmente vigorosi. Per quanto  mediterranei, sono arbusti che riescono a superare anche i rigidi inverni collinari seccando precocemente i  rami verdi ed elastici che formano la loro parte più vistosa. 
Sono comunque le loro parti legnose a sopravvivere. Da queste le gemme svernanti  sbocceranno in primavera.
Si tratta nell'insieme di arbusti pionieri che colonizzano scarpate e pendii franosi e che, proprio per questo, per il loro apparato radicale particolarmente robusto, vengono usate da sempre per consolidare i suoli scoscesi.
I botanici hanno cambiato i nomi dell'intera tipologia di piante alle quali appartengono. Prima Leguminose, poi Papilionacee, infine Fabacee. Ma per noi cambia poco.
I loro fiori sono e restano tipici. In quanto organi sessuali restano per molte ragioni le parti più conservative delle piante in genere e funzionano da criterio certo per le classificazioni. 
I fiori delle ginestre, delle acacie, dei piselli, dei ceci, dell'erba medica ecc sono tutti fra loro simili. E sono l'emblema dell'affollatissimo gruppo.
C'è un'altra caratteristica speciale e particolarmente importante da citare che riguarda le Fabacee.
Fertilizzano i terreni da cui crescono invece di impoverirli. Sono le sole piante a farlo. Li arricchiscono di sali di Azoto. E ciò per via di certi noduli che crescono solo sulle loro radici. Una simbiosi unica con i batteri azotofissatori che, in cambio di zuccheri e di altre sostanze elaborate dalla pianta, catturano l'Azoto molecolare, lo trasformano e fertilizzano il terreno.
Pensate se si potesse fare lo stesso con i cereali! Si eliminerebbe la necessità di concimare i suoli su cui vengono seminati! 
Mi pare che in qualche Istituto ci stiano tentando.
Con le ginestre dei carbonai (Cytisum scoparius) si fabbricavano, neanche a dirlo, delle ottime scope. I loro rami verdi, elastici, resistenti, dritti e sottili si sono, dimostrati, al riguardo, ideali.
Sono anche le ginestre meno tossiche del gruppo.
Gli estratti dei loro fiori (meglio se appena sbocciati) contengono varie sostanze fra cui la Sparteina, utilizzata tradizionalmente come efficace diuretico.
Anche le api li gradiscono, li visitano e ne utilizzano il nettare per produrre del miele.
Sono attratte dall'intenso giallo dei fiori, che spiccano sul verde scuro dei rami e delle foglie nonché dal loro delizioso odore.
Anche noi umani, guarda caso, siamo attratti dal giallo e dal profumo delle ginestre.
A proposito, particolarmente profumati sono i fiori delle Ginestre odorose (Spartium junceum) da cui viene ricavata un'essenza preziosa per l'industria profumiera.




Ma non è tutto. Dai rami fibrosi di quest'ultima si ottiene lo Sparto, utile per fare corde, stuoie e tessuti vari. Qualcuno ha recuperato questa pregiata produzione tradizionale ormai perduta, come del resto ha fatto con le fibre ottenute dall'ortica, che un tempo dava tele resistenti e delicate.
Le Ginestre piacciono. Anzi, di più, suscitano l'ammirazione per ciò che riescono a fare nei luoghi anche impervi e assolati dove crescono.
Da maggio a giugno, inconfondibili,  le loro  macchie cromatiche ravvivano il paesaggio.
Come scriveva infatti G.Leopardi  "E tu, lenta ginestra che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni..."
Forse anche per causa sua le ginestre sono il simbolo vegetale degli scettici e dei razionalisti, di quelli insomma che amano la conoscenza sudata, vale a dire la conoscenza scientifica: improbabile e affascinante fioritura sul terreno impervio e arido di una cultura dominante che resta, nonostante le Ginestre, pericolosamente franosa e irrazionale.

giovedì 14 gennaio 2016

TUTTI I COLORI DEI POMODORI

Chi non conosce i pomodori? Ai bambini più piccoli, a scuola, si mostra una foto o un disegno, l'immagine su un monitor o, più raramente, un frutto e gli si dice: "Questo è il pomodoro". Un singolare tondo, tondo che gli frega per un bel po' di tempo la possibilità di imparare a pensare al plurale e, quindi, di incuriosirsi alle infinite variazioni che caratterizzano le forme viventi e non viventi.
Ma  a tanti va bene così, è la linea dominante. A ben pensarci infatti il singolare si confà a quell'altra pretesa di singolarità e di unicità che è il monoteismo, il pilastro portante della cultura occidentale e non solo di quella.



Dietro alla sigla Solanum Lycopersicum, che serve per individuare il gruppo, ci stanno in realtà più di 4.000 varietà di pomodori-piante.
La cosa stimola la fantasia e, al tempo stesso, anche il dubbio che possano essere davvero tante queste piante, capaci di  frutti così diversi.
Cominciamo dal colore (e cioè dal colore dei pomodori; tecnicamente le bacche plurisperme delle piante di pomodoro)
Si va dal  bianco (white queen, white tomesol,...) al giallo (wendy, lemon, douce de Picardie,...) al rosa (thai pink...) all'arancione (moonglow) al verde (green zebra, ...) al blu, al nero violaceo (nero di Crimea, purple perfect,...)
Se poi si considerano le forme, i tipi di bucce, la grandezza dei frutti, l'aggregazione (singoli o riuniti in grappoli), la caratteristiche chimiche, le particolarità interne (per esempio i pomodori cavi detti tomate à farcir), si fa presto a capire che le diverse bacche di lycopersicum potrebbero essere anche più delle 4.100 ufficiali.
Il gruppo delle piante lycopersicum è affine a tanti altri gruppi che, insieme, vengono identificati nel genere Solanum
Questi gruppi sono circa 1.400, vale a dire 1.400 specie differenti comprensive ciascuna di una moltitudine di varietà.
E' ovvio che la fantasia in tanta ampiezza si perde...
Accontentiamoci di sapere almeno che sono tutte velenose ma che però, in generale concentrano, per difendersi dai predatori,  i loro alcaloidi tossici solo nelle loro parti verdi e non nei frutti o nei tuberi se no non potremmo mangiare nè i pomodori, nè le melanzane (solanum melongena), nè le patate (solanum tuberosum).
Ci sono organizzazioni benemerite che cercano di recuperare nelle campagne e negli orti i semi antichi di queste specie alimentari. Per poi conservarli in modo da garantirci anche per il futuro le varietà  originarie.
Alla moderna produzione industriale, soprattutto se multinazionale, interessano invece solo le poche forme  altamente produttive da lei selezionate e ingegnerizzate.
Gli Aztechi chiamavano i pomodori "xitomati", un termine  destinato ai frutti succosi. Le piante che li producevano erano tipicamente americane.
Più o meno la data del loro arrivo in Europa risale al 1540 quando lo spagnolo Hernan Cortes ne portò da oltre oceano i primi esemplari in patria.
E qui la storia si fa buffa nonché istruttiva.
"Il pomodoro", nei paesi europei, fu subito etichettato come poma amoris, ovvero pomo dell'amore.
Traboccante di succhi, col suo sapore intenso doveva essere per forza un afrodisiaco, oltretutto del tipo più temibile, data la sua somiglianza con il "pomo di Satana" ovvero con il frutto della mandragora.
Quest'ultimo era considerato unanimemente il frutto dell'Inferno dal momento che, secondo la Bibbia, lo usò Lea per sedurre Giacobbe.
Tanto per intenderci, uno dei crimini per i quali Giovanna d'Arco fu arsa sul rogo fu il suo presunto possesso di una radice di mandragora.
Si diceva che il pomodoro facesse cadere i denti e che il suo profumo rendesse folli.
Il terrorismo moralista si spingeva a condannare l'atto di addentare la sua polpa succulenta quale atto lascivo, quindi pagano e ,come tale, non solo dottrinalmente perseguibile.
"Non c'è niente di più malefico" ammoniva l'abate Chiari, noto moralista cattolico ancora verso la metà del settecento, riferendosi al pomodoro.
Col tempo, tuttavia, la proibizione morale lasciò il campo, come sempre, alla soddisfazione corporale e il pomodoro finì per vincere la partita e venne accettato.
I pomodori sono i frutti col maggior contenuto di licopene, una sostanza molto attiva nella prevenzione dei tumori della prostata, della cervice e del seno.
Dalla loro pelle si ottiene, tra l'altro, la cosiddetta plastica naturale che ha il non secondario vantaggio di essere biodegradabile.
E poi cosa sarebbe la cucina mediterranea se non quella in generale senza i pomodori?
Vittime di crociate epuratrici per qualche secolo, i pomodori si sono presi la loro bella rivincita.
Ma le cose mutano e oggi succede che gli esemplari che arrivano sulle nostre tavole il più delle volte sono privi di sapore.
La Grande Distribuzione, sorella della Grande Produzione, sembra volerci riempire del mitico pomo dell'amore togliendogli ogni sorgente di gusto e a noi, quindi, ogni voglia di addentarlo.
Triste nemesi storica: il moralista è tornato a vincere perché, privato dei suoi succhi eccitanti e deliziosi, il frutto non è più peccaminoso.
Il brutto è che la vittoria sul pomodoro non è certo l'unica vittoria di coloro che si danno come missione la proibizione.







giovedì 5 novembre 2015

MAIS DI CARNE

Zea mays. Che pianta! Anzi, che piante!
Nelle Americhe precolombiane queste erbacee annuali costituivano la base alimentare per molti popoli che le avevano selezionate per millenni in funzione di una moltitudine di ambienti e climi diversi nonché per soddisfare gli usi e i gusti più disparati.
La varietà genetica era enorme e si manifestava in migliaia di tipi differenti di mais.
I nativi americani queste piante le veneravano.
Quando gli scopritori europei assunsero anche nelle Americhe la loro veste esplicita di invasori  dovettero, tra le altre cose, demonizzare il cibo prediletto dai loro nemici. E lo chiamarono granoturco.
Questo perché allora tutto ciò che era sconosciuto e insidioso non poteva che essere turco, emanazione maligna dell'odiato nemico di Costantinopoli.
Ancora nel XIX° secolo tanti irlandesi preferivano la morte per fame piuttosto che accettare di nutrirsi con pane di mais, appunto giallo come lo zolfo.
Ma il granoturco, per ragioni biochimiche sue, restava una pianta portentosa in fatto di produttività. E così, sia in Europa che negli Stati Uniti, per quanto spregevole, divenne una base fondamentale per l'alimentazione popolare.
I nativi americani avevano costruito un ricca cultura culinaria basata sul mais; i civili popoli di origine europea la ridussero  a semplice granoturco: a un alimento monotono ben lontano dai fasti della molteplicità dei suoi luoghi di origine.
Nelle Americhe dei nativi era possibile trovare ciambelle di mais verdi, bianche, blu, rosa; pane salato cotto sottoterra fatto con una varietà di mais completamente bianco; soffici biscotti; pancake psichedelici ottenuti versando vari impasti di mais rossi, verdi, bianchi, gialli, blu e viola su una pietra infuocata...

Le poche forme di granoturco a cui gli europei e gli europei americani ridussero il mais  erano (e ancor più oggi sono) molto produttive in termini di quantità e molto ricche di zucchero in termini di contenuto.
Così come l'economia basata su un solo tipo di patata (delle migliaia di tipi coltivati e usati dai popoli andini) aveva portato alla grande carestia irlandese, così il mais ridotto a granoturco cominciò a produrre le sue vittime: enormi croste purulente a forma di farfalla comparivano sui nasi e sui corpi di chi se ne alimentava, accompagnate da un prurito irresistibile, diarrea acuta e, infine, demenza.
Nell'Italia del Nord soprattutto la polenta, alimento base e per tanti contadini unico, aveva provocato verso la fine del 1800 centinaia di migliaia di questi casi.
Anche negli Stati Uniti l'erba selvatica degli Aztechi, tramandata dai pellerossa, "giustamente sterminati", era imputata del reato di omicidio di massa.
Qualcuno disse -con grande intelligenza profetica visto il nostro presente- che fino a quando la gente continuerà a credere nelle assurdità continuerà a compiere delle atrocità.
Solo a metà del novecento si dimostrò che la grave malattia da granoturco, chiamata "pellagra" era causata dall'assenza nelle sue farine di vitamina B3.
Tuttavia, l'osservazione che fra gli indiani non fossero mai stati riscontrati casi di pellagra avrebbe dovuto spingere i civili europei ad indagare già molto prima.
Gli indiani, prima di ridurre i mais in farina, mettevano i chicchi a bagno per una notte in acqua e calce o in acqua e cenere. Era proprio quel procedimento che rendeva disponibili tutte le vitamine necessarie e faceva del mais un super-alimento.
Ma l'arroganza degli invasori fece sì che non lo prendessero neanche in considerazione. Interessante è  il perché. Perché erano certi che quel procedimento servisse ad ammorbidire i grani e a rendere meno faticosa la loro macinazione, a conferma della natura pigra del popolo indiano.
Veniamo quindi alla vera tragica nemesi storica.
Gli Stati Uniti in particolare hanno finito per fondare tutta la loro economia agricola sul granoturco. E  questo, dal punto di vista della pianta, ma solo della pianta, è un grande successo!
A granoturco vi è coltivata una superficie di oltre 320.000 Km quadrati, più estesa di quella dell'Italia intera. Enormi distese di monocultura ottenuta con fiumi di diserbanti e montagne di concimi  che viene preservata con docce ripetute dei più moderni pesticidi.

La stessa carne rossa la si ottiene alimentando i bovini con questa massa enorme di granoturco sponsorizzato dal governo.
Dove sta il problema? Che esseri erbivori strutturati per brucare erba dei pascoli o comunque masticare fieno sono costretti a ingozzarsi di mangimi fatti di farine.
E perché non muoiano con questa nutrizione inadatta vengono imbottiti di antiacidi, di antibiotici e macellati il prima possibile.
La maggior parte degli antibiotici che vengono prodotti -bisogna saperlo- non va negli ospedali e nelle farmacie ma nei mangimi. D'altronde, la perversione ha raggiunto il suo apice nutrendo gli erbivori con scarti di carne, grassi, penne, farina di ossa ecc. Decisamente contronatura.
L'Industria Chimica da parte sua sa ottenere di tutto dai chicchi del granoturco.
Zuccheri, oli, aminoacidi ramificati e non...
L'HFCS è la sigla che identifica l'onnipresente sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio. Poi c'è l'etanolo (alcol etilico) usato come biocombustibile, gli amidi, e un intero esercito di sostanze utilizzate come additivi alimentari di vario tipo..
In pratica oggi granoturco e soia stanno alla base di ogni tipo di bevanda o cibo.
La nemesi sta proprio qui: la ricca cultura del mais dei popoli arretrati (sterminati) è stata sostituita dalla ridotta e inquinata cultura del granoturco, diventato la base materiale della potente industria che dà da mangiare e da bere al moderno popolo dei vincitori. Così  che la stessa carne rossa di cui questo dispone non può più essere per mille ragioni la carne rossa non cancerogena dei bisonti selvaggi che a milioni popolavano le immense distese erbose di tutta l'area centrale del Nordamerica.




mercoledì 19 agosto 2015

PIANTE CARNIVORE

Carnivore? Piante che addirittura mangiano carne?
Fossero almeno vegetariane o vegane: piante che mangiano solo piante!!
Ironie a parte, è l'atto stesso del mangiare a presentarsi come assurdo, a contraddire la loro natura di piante, loro che, per definizione sono "inorgane", un neologismo che vorrebbe ricordarci  che loro sono loro proprio per la capacità di costruirsi utilizzando soltanto sali minerali, anidride carbonica, acqua e luce solare.
Come fa dunque una pianta ad essere carnivora e purtuttavia a rimanere una pianta?
Intanto c'è da dire che le carnivore non scherzano. Ce ne sono più di 600 specie che mettono in atto mirabili trappole per catturare insetti di vario tipo, ragni e scolopendre o, addirittura, come nel caso di certe specie del genere Nepenthes, anche piccoli mammiferi inclusi topi di una discreta dimensione.



Tutte prede che, ovviamente, digeriscono e, se la loro azione deve avere un senso compiuto, poi assimilano.
Questo comporta che certe loro foglie debbano formare delle sacche che, come  stomaci animali, secernono enzimi digestivi.
Con questi enzimi digestivi decompongono le cellule delle loro vittime nei loro mattoni elementari.
Questi mattoni bisogna poi che vengano assimilati. Cioè a dire assorbiti, distribuiti nell'intero corpo della pianta in modo che le cellule che lo costituiscono possano usarli per assemblare se stesse.
Il significato è semplice: siamo tutti fatti degli stessi mattoni materiali soltanto messi insieme diversamente.
Si sostiene, e a ragione, che tutte queste specie vegetali si siano trasformate in carnivore come adattamento alla povertà dei suoli su cui, con una tale soluzione, potevano ugualmente vivere.
Tuttavia anche molte specie decisamente non carnivore ci riservano sorprese.
Per esempio le piante di patata o di tabacco.
Le loro foglie secernono sostanze appiccicose o velenose per cui è abbastanza frequente trovarci sopra dei piccoli insetti morti.
Quelli che cadono al suolo si decompongono rilasciando l'azoto che serve alla pianta per integrare la propria dieta.
Quelli che rimangono sulle foglie vengono a loro volta decomposti dai batteri che ci vivono e la pianta può anche lì assorbire i loro prodotti di scarto anch'essi ricchi di azoto.
I botanici le hanno definite "protocarnivore" alludendo ad uno stadio più generico che precede le specializzazioni delle vere e proprie carnivore.
In queste ultime la varietà delle forme e delle modalità di "caccia" è davvero stupefacente.
I biosistemi non hanno limiti di inventiva.
E queste piante che hanno foglie verdi, mostrano i loro bei fiori sgargianti ma al tempo stesso catturano e mangiano, la dicono lunga sui limiti della nostra mente quando crea barriere insormontabili e pone quegli out out tipici delle Verità rivelate.
Piante o animali, animali (senz'anima) o esseri umani (in particolare cristiani) certamente con anima.

giovedì 28 maggio 2015

EQUISETUM

La parola Equisetum serve per raggruppare mentalmente un certo numero di entità biologiche simili chiamate popolarmente Code di cavallo.
Si tratta in tutto di una quindicina di specie vegetali i cui individui, tutti amanti dei terreni umidi e della luce intensa, si differenziano per varie caratteristiche pur mantenendo uno schema unitario di struttura.
Una decina di queste specie, tutte perenni, si trovano anche in Italia. Oltre alla più nota, ovvero l'arvense, si possono trovare la pratense, la fluviatile, la palustre, la bagotense, la variegatum, la giganteum, la hyemale ecc.
Cos'hanno nel loro insieme di speciale?
Anzitutto il fatto di essere dei fossili viventi.
Non hanno fiori e quindi non hanno bisogno di attrarre, di mettersi in mostra, di sedurre esibendo fogge particolari, colori ammaglianti, profumi adescanti.
Producono spore che consegnano all'acqua o al vento. Sono al tempo stesso strutture ad architettura semplice, ripetitiva, vistosamente modulare e i loro sistemi di conduzione interna non sono dei più efficienti
                                         arvense steli fertili
                                              arvense  steli sterili

La domanda interessante da farsi è come mai in una presunta corsa delle forme viventi verso la perfezione si siano conservate strutture così arcaiche, vecchie di almeno trecento milioni di anni.
Certo è sensato pensare che, benché più semplici delle moderne piante a fiori, questi esseri abbiano un genoma particolarmente indovinato. Ma la risposta alla domanda resta comunque un'altra: loro esistono perché  fra le forme viventi non esiste nessuna corsa verso la perfezione.
Ricordate sempre la piramide della vita.
La base è formata da esseri unicellulari e batteri e virus sono ancora a formare questa base non da milioni ma da miliardi di anni.
I viventi si possono trasformare, alcuni di loro lo fanno, ma non perché c'è una direzione da seguire o tantomeno un Direttore cui obbedire.
Le specie parassite, per esempio, incarnano un regresso, altre, sempre per esempio, nelle loro vicissitudini, si trovano nelle condizioni di cambiare o di soccombere. Altre ancora, se possono restare come sono,ci restano.
Le "Code di cavallo" sono rimaste. La loro complessità è già stupefacente ma lo è meno di quella delle rose, delle viti o dei trifogli.
Nelle foreste tropicali raggiungono vari metri d'altezza ma, anche nelle migliori condizioni, non potranno mai competere con l'imponenza di una quercia.
Comunque coesistono con noi, questo è un fatto, e nessuno può dire se, per quanto più semplici, dureranno o no più di noi.
Un altro fatto è che, intanto che coesistono, noi le adoperiamo.
Soprattutto la loro specie più comune, che è l'arvense.
Questa, a primavera, dalle sue gemme sotterranee fa spuntare steli fertili sporiferi ma non fotosintetici e steli sterili non sporiferi ma fotosintetici che si caratterizzano per l'elevato contenuto di Silicio, presente sia in forma chimica solubile che insolubile. Quest'ultima è forse uno dei segreti della sopravvivenza della specie dato che in così alta quantità usurerebbe presto i denti di chi si provasse a mangiarla. Un altro effetto di questo silicio insolubile è la capacità che conferisce alla pianta di riflettere la luce solare in eccesso.
Al Silicio solubile e a tutte le altre sostanze che contiene (e che in generale contengono tutte le Code di cavallo) si deve invece l'attività rimineralizzante della pianta.
In pratica questa favorisce la ricalcificazione delle ossa accelerandone i tempi,
ragione per cui se ne consiglia l'impiego in gravidanza, nella menopausa e più in generale nell'osteoporosi.
Il Silicio è presente in particolar modo nel tessuto aortico e nei tendini, organi le cui fibre elastiche perdono di efficienza con l'invecchiamento e, al tempo stesso, con la perdita di Silicio. Da qui l'impiego dell'equiseto per rallentare questo processo di degrado.
L'equiseto è diuretico. Fonti autorevoli dicono che l'infuso ha azione diuretica potente ma minore azione rimineralizzante; il decotto, al contrario, ha minore azione diuretica e maggiore azione rimineralizzante.
Gli Equiseti, alcuni in particolare contengono un enzima, la Tiaminasi che è in grado di distruggere la vitamina B (Tiamina), ma alcol e quindi tinture, temperature di 100 °C e quindi infusi e decotti neutralizzano l'enzima.
Si può ottenere dagli Equiseti anche un miglioramento dell'elasticità cutanea. Da qui il loro uso in cosmetologia per la prevenzione delle rughe e più in generale dell'invecchiamento della pelle.












venerdì 5 dicembre 2014

MALVA

Malva, un nome, una pianta
E, come al solito, non è vero.
Le piante odiano il singolare. Infatti, anche se qui si fa riferimento soprattutto alla malva comune (Malva Sylvestris),
non bisogna dimenticare che di Malve ne esistono numerosissime specie e numerosissime sono le varietà all'interno di ciascuna di queste specie.
Esattamente così come accade per ogni altra forma vivente.
Malva neglecta, parviflora, moschata, erecta, arborea, pusilla, verticillata ecc, ecc.


Tuttavia, almeno da noi, gli individui della Malva comune sono appunto i più comuni.
Bisogna dire subito che le malve sono piante particolarmente preziose per svariati e concreti motivi.
Intanto il loro uso è millenario e, quindi, all'inverosimile sperimentato.
Di sicuro, per esempio, sono da sempre conosciuti i loro effetti emollienti.
Ma andiamo per ordine.
Le radici si raccolgono in autunno. Le foglie da giugno a settembre. I fiori da aprile a ottobre.
Tipico è l'uso delle malve in tutti  i casi di irritazione delle mucose sia per uso interno che esterno, nei casi di stitichezza, di cistiti e di tosse stizzosa.
Cosa che non mancherà di destare interesse soprattutto nelle signore, l'empiastro di foglie fresche di malva può essere applicato sul viso per eliminare macchie pigmentate, rughe e per rallentare gli altri processi di invecchiamento della pelle.
Ma veniamo ad indicazioni alimentari più volte in pratica ripetute.
Se raccogliete delle belle foglie tenere di malva comune in quantità potete farle bollire per 5-10 minuti in poca acqua e vedrete il formarsi di un liquido di cottura mucillaginoso e giallognolo. E' un toccasana per lo stomaco e per l'intestino nonché, se volete prenderne una parte, una volta raffreddato, per il trattamento di svariate affezioni cutanee sulle quali va applicato.
Ma, tornando alle foglie nella pentola, siete nelle condizioni per fare un'ottima minestra.
Frullate le foglie, aggiungetevi la pasta che più vi piace, olio e parmigiano nel piatto.
E' una bontà e l'effetto rilassante ed emolliente sul vostro apparato digerente è garantito.
Purtroppo da un po' di anni a questa parte in molte aree le popolazioni di malva comune sono puntualmente parassitate da insetti che gli depongono le loro gialle uova sugli steli e sulle pagine inferiori delle foglie rendendo impossibile la raccolta.
In autunno questo non succede ma le foglie non sono buone come lo sono in primavera.
Comunque, se e quando trovate delle malve non parassitate usatele perché queste piante sono un tesoro che merita tutta la nostra attenzione. Meriterebbero anche tutta la nostra considerazione ma questo è un altro discorso.

martedì 2 settembre 2014

I PIANTA-FAME

Un'arteria coronaria si chiude. Il sangue ci sarebbe, ma non arriva più alle cellule che ne hanno assolutamente bisogno per vivere.
Allo stesso modo il cibo ci sarebbe ma, per una serie di ragioni e di ostacoli, non arriva a chi non ne può fare senza.
In entrambi i casi l'esito è spesso mortale ed è sempre e comunque di grande sofferenza.
La "Fame nel mondo" riguarda una porzione non trascurabile della specie umana. Dipende dalle modalità della Produzione e dalle crude logiche della Distribuzione.
Quindi è l'effetto di un affamamento e -ecco un bel teorema da dimostrare- questo affamamento è a sua volta causato dalla visione di specie sovrannaturale che i bipedi hanno di se stessi.
Se bastasse la quantità per risolvere il problema della Fame, siccome la base alimentare è sempre e comunque vegetale, sentite cosa si potrebbe fare.
Oggi i terreni coltivabili hanno bisogno di dosi sempre più massicce di fertilizzanti e i fertilizzanti principali sono i composti che contengono azoto, i più dispendiosi in termini energetici e i più cari.
C'è però una famiglia di piante che non ne ha bisogno per il fatto che è in grado di autofertilizzarsi.
Le Leguminose hanno stretto un rapporto con dei batteri speciali che ospitano in certi noduli delle loro radici.
E speciali lo sono veramente questi batteri perché, in cambio degli zuccheri che gli danno le piante, riescono nientemeno che a prendere l'azoto dall'aria.
L'aria che respiriamo è composta per circa l'80% di azoto. Solo che, così come si trova, questo azoto è inerte.
Le sue molecole sono troppo stabili. I due atomi  di azoto che le formano sono così fortemente legati fra loro che nessun organismo vivente è in grado di usarli.
Salvo i batteri chiamati non a caso azotofissatori ospitati dalle Leguminose.
Erba medica, fagioli, piselli, fave, ecc fertilizzano se stesse e, con i loro resti -come sa ogni agricoltore che coltiva i propri campi a rotazione- fertilizzano i terreni.
Ora pensate se questa simbiosi con i batteri azotofissatori che attuano le Leguminose potesse essere estesa a tutte le altre famiglie di piante alimentari.
Quale risparmio energetico e quale incredibile aumento della produttività!
E poi ancora.
Tutti i cereali utilizzati adesso sono annuali...mais, frumento, orzo, avena ecc. crescono e muoiono nel giro di un anno. Ma non è sempre stato così. La loro trasformazione in piante perenni è possibile.

Niente più arature, niente più semine annuali, niente più multinazionali che hanno il controllo e il monopolio dei semi. Insomma una vera rivoluzione che farebbe schizzare alle stelle la produttività dei terreni coltivabili e l'economicità delle produzioni.
Ci si può chiedere perché queste grandi mete non vengano raggiunte.
La chiave per sconfiggere i tumori sta nell'attivazione contro di essi del Sistema immunitario. La chiave per produrre cibo a volontà sta in quanto appena detto.
Eppure su questi obiettivi terreni non vengono veramente concentrati gli sforzi.
La specie umana ha evidentemente troppi fattori di dispersione che gravano sulle sue azioni veramente utili.
La moltiplicazione dei pani è laicamente possibile.
Per come stanno andando le cose c'è da chiedersi se sarebbe utilizzata per placare la fame.